La prova imposta dal Dio Unico ad Abramo con l’ordine di uccidere Isacco è stata analizzata da teologi, rabbini, preti, filosofi, alla luce delle fedi e delle teorie. Ma, avendo osservato io da tempo, con appassionata attenzione, la formella in cui Brunelleschi (v. foto) mio amato eroe, catturò il momento più significativo del dramma, ho dovuto constatare come - lasciando da parte le analisi del "perché" e del "quindi" - il risultato estetico di questa formella, in particolare, mettesse in luce l’ansia, la forza, il coraggio di una figura: il Padre. E, allora, guardandomi intorno tra i capolavori, ho notato quale differenza di qualità e di quantità ci sia tra gli omaggi resi dall’arte classica alla Madre, dalle Matres Matutae alle Vergini Maria, e le immagini di un padre vero. E, in questo giornale, che parla di bambini, e di crescita, la segnalazione dell’assenza, o quasi, del padre dalla raffigurazione artistica mi appare utile. Filippo Brunelleschi Un segnale forte, come si usa dire. Nella storia di Filippo Brunelleschi, gloriosa per tanti motivi, ma soprattutto per la creazione della Cupola del Duomo di Firenze, miracolo architettonico insuperato, c’è un momento di crisi, di dolore puro, ben diverso dai frementi momenti della sua lunga lotta contro le leggi della materia o contro le gelosie. Il momento di dolore, di disperazione, è quello nel quale - siamo nel 1401 - l’Arte dei Mercanti di Firenze conclude il concorso per la seconda porta del Battistero, premiando tra i sette concorrenti quel Lorenzo Ghiberti, orafo e scultore, che poi Filippo odierà e combatterà senza quartiere per tutta la vita. La scena del sacrificio di Isacco I concorrenti erano stati chiamati a raffigurare in un quadrilobo di bronzo, cioè una specie di esatto quadrifoglio sovrapposto e intersecato con un quadrato, la scena del sacrificio di Isacco: storici e critici hanno analizzato per secoli le ragioni della vittoria del Ghiberti, ora parlando di motivi pratici, quale maggiore facilità di fusione, ora di maggiore aderenza ghibertiana alla cultura classica, mutuata nella maestria gotica di un cesellatore. Di fatto, ai miei occhi come a quelli di tanti altri, la formella del Brunelleschi appare assai più fascinosa. Molto più bella in assoluto. Più capace di dare vita al nostro sentire. Il rapporto padre-figlio Il drammatico rapporto "padre-figlio" è rappresentato in questo capolavoro, oggi al Museo del Bargello, con una vitale disperazione, inconsueta non solo nella prima arte rinascimentale, ma in quasi tutte le rappresentazioni visive. Mentre la figura della Madre attraversa millenni e secoli con le sue rappresentazioni, l’amore o il dolore del padre, o anche del figlio o della figlia vicini, intendo, non trova paragonabili riscontri figurativi. Dichiariamo chiaramente: il buon padre non ha volto. Eroe positivo o negativo, guerriero o profeta, santo o peccatore, l’uomo padre, il papà-daddy affettuoso aspettava secoli per avere sembianze diverse da quelle di un Cronos, divoratore. Il maschio può interpretare la parte di Adamo e di Giulio Cesare, di Erode, di un Evangelista: ma anche i più grandi artisti se la cavano piuttosto male con la rappresentazione della paternità. Eppure le "storie" sono piene di Agamennoni, Giacobbi, re e papi con legami complicati, ma non hanno volto. L'Abramo fuori di senno Rimanendo nell’ambito dell’arte italiana, dobbiamo ricordare quanto modesti appaiano in genere i San Giuseppe, partner della Madonna, e come perfino i vari Padre Eterno trovino raffigurazioni stereotipate, se non brutte. Perché? Perché l’Angelo Annunziante, che non è padre, viene presentato con grazia e con genialità? Perché piacciono Adamo e Giuseppe, tutti i Santi asessuati, magari torbidi come numerosi Sebastiano, mentre l’Uomo che è andato a ltto con una Madre, l’Uomo che ha generato non ispira? Una tale questione, come è chiaro, la consegno di peso, per me intoccabile, agli psicoanalisti. Devo invece dire qualcosa su quel Padre del Brunelleschi, quell’Abramo che è letteralmente fuori di senno per la necessità di obbedire al Dio che vuole far morire il bambino desiderato e amato. Soltanto alcune foto splendide, come quelle contenute nel testo di Ragghianti su Brunelleschi, rendono giustizia alla creazione dell’artista: l’occhio fisso, il corpo proteso, il Patriarca-padre è avulso dalla ragione del mondo pastorale: là, sul monte Morìa, brucia la legna, l’asinello bruca, il servo si leva la spina dal piede in una di quelle scene classiche di contorno molto caratteristiche e celebrate per la loro perfezione. Ma Abramo non vede né l’Agnello che sostituirà il figlio, né la disperazione del ragazzo, sparuto, che ad occhi chiusi non si divincola più. Come era arrivato a Brunelleschi un messaggio così vero di paternità impazzita? Due linee di riflessione Le riflessioni si muovono secondo due distinte direttrici. Due interrogativi si stagliano. Primo: quale e quanta informazione dei fatti narrati nella Bibbia giungeva, pulita, a un uomo nato a Firenze in anni tumultuosi, cioè nel 1377, prima del benessere umanistico, libresco, ricco di messaggi coloriti e internazionali, prima cioè del Rinascimento? Secondo: come erano questi padri di artisti, ai quali mai si dedicava un sonetto, una statua, un ritratto? Avendo come più facile e più comune fonte "Le Vite" del Vasari, troviamo nella tradizione padri schiacciati e ambiziosi, notaio il babbo di Filippo come il babbo di Leonardo, preoccupati di metterli a lavorare fin da piccoli presso orafi o scultori di classe. O addirittura - come poi farà il padre di Michelangelo - di farli approdare a corte in giovane età, se proprio vogliono fare l’artista piuttosto che il notaio o il mercante. Qualcuno nasce già in una famiglia di artisti, come il Ghirlandaio, ma neanche di papà Ghirlandaio abbiamo immagini "simpatiche". L’unico padre raccontato in lungo e largo è il padre di Benvenuto Cellini, presentato anche assieme al nonno in varie occasioni soprattutto nella bella scena dello Scorpione. |